Monsignor Gianfranco Ravasi sorride, dialoga, si racconta nella “torre” della Gazzetta d’Asti. Non lesina, non si risparmia ma anzi accoglie ed esalta ogni spunto, ogni stimolo alla conversazione.
Biblista ed ebraista, già Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano e docente di Esegesi dell’Antico Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Ravasi è un uomo di parola, ma non nell’accezione comune: in senso letterale. Il motto nel suo stemma episcopale è proprio “Praedica Verbum”: portare la Parola, annunciare, comunicare è la sua missione profonda.
Ad Asti non era mai stato prima dello scorso martedì, quando ha tenuto davanti al pubblico di Passepartout la conferenza dal titolo “L’umanesimo necessario tra scienza e nuova comunicazione”, in memoria dell’amico e collega Paolo De Benedetti.
“Il nostro legame – racconta Ravasi – si sviluppava grazie a due aspetti. Uno diretto, l’insegnamento alla Facoltà Teologica, che ci garantiva un continuo incontro ogni settimana e un’affinità di materia, e uno indiretto, l’omogeneità delle conoscenze e delle sensibilità, la frequentazione del mondo della cultura milanese, le amicizie comuni come il cardinale Martini. L’orizzonte delle conoscenze di De Benedetti era enorme, in tutti gli ambiti, non solo in quelli suoi propri, ma anche nel mondo letterario, storico. Avevamo in comune il culto della parola, infatti un altro amico in comune era Umberto Eco”.
Tra i temi cari a De Benedetti, e divisivi, il riferimento agli animali, “i nostri fratelli minori”. Lei come si pone su questo punto?
“Penso si debba risalire alla concezione del destino ultimo del Creato: secondo San Paolo, tutta la creazione attende la libertà dei figli di Dio. Tutto, “gemendo”, attende la stessa redenzione. Se tutta la creazione deve essere ri-creata per approdare alla sua pienezza – perché nel senso cristiano non si parla della fine del mondo, ma “del” fine del mondo – ecco affacciarsi il tema della resurrezione, della ri-creazione di questo capolavoro che verrà ricomposto. E allora certamente anche gli animali rientrano in questa visione. Ma penso ci sia una distinzione da affermare. Nella Genesi si afferma che l’uomo ricevette una fiaccola interna, che illumina i recessi oscuri del ventre. È l’immagine della coscienza. Ce l’hanno soltanto Dio e l’uomo. Tutti moriamo, ma noi sappiamo di dover morire, noi conosciamo il nostro senso del limite, gli animali no”.
La centralità della figura dell’uomo, parliamo di “umanesimo necessario”, dal titolo del suo intervento a Passepartout. Cosa si intende?
“Trovo che nella cultura contemporanea non ci sia più un concetto comune di natura umana. Una volta era chiaro che “agere sequitur essere”, l’ontologia precedeva la deontologia. C’era una struttura essenziale. Per Platone era l’anima, per Aristotele erano anima e corpo. Oggi questo passaggio non è più così chiaro, esiste una fluidità che apre la strada a ogni interpretazione. Io credo vada ritrovato un punto comune, un elemento che leghi tutte le concezioni antropologiche, che serva da concetto strutturale di base. E credo che questo elemento sia la relazione interpersonale. Tutti riconoscono che si ha bisogno gli uni degli altri, l’incontro con le cose non basta, si cerca un aiuto che ci sia simile, come davanti a Lui, occhi negli occhi. Pensiamo a Lévinas e all’importanza assegnata all’epifania del volto dell’Altro. La grande malattia dei nostri giorni è la solitudine, la cancellazione delle relazioni, l’isolamento”.
L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 9 giugno 2023
Marianna Natale