Franco Faggiani vive a Milano dove si dedica principalmente alla scrittura di romanzi, ma ha un passato da giornalista “freelance”. Ha lavorato come reporter nelle aree più calde del mondo e ha scritto manuali sportivi, guide, biografie e romanzi, ma da sempre alterna alla scrittura lunghe e solitarie esplorazioni in montagna. I suoi romanzi sono tradotti in diverse lingue e tutti sono stati pubblicati nei Paesi Bassi dove gode di grande successo di pubblico e di critica. Con “L’inventario delle nuvole” ha vinto otto prestigiosi premi letterari, mentre a settembre è uscito sempre per Fazi Editore, il suo ultimo romanzo “Basta un filo di vento”.
Il suo appello “Se non ora quando” è stato accolto dalla giuria del premio: come si sente ora?
“Ah, mi sento benissimo! Ho preso questo premio con allegria e quindi ho voluto con la mia arringa alleggerire i discorsi filosofici sulla letteratura. Del resto cerco sempre di scrivere di storie positive e piacevoli. Sono davvero molto felice di aver vinto questo premio prestigioso, anche perché avevo già partecipato nel 2020 all’edizione a distanza per via del covid. Approfitto per fare i complimenti all’organizzazione per non aver mollato, per essere stati tenaci e aver continuato a portare avanti questo premio così bello. Un altro bellissimo momento è che all’uscita del teatro ho incontrato una professoressa che mi ha invitato a parlare ai suoi alunni, invito che ho subito accettato: quindi tornerò ad Asti molto presto”.
Il romanzo porta il lettore in luoghi nascosti, in un tempo lontano e in una storia sconosciuta. Come si è avvicinato a questa vicenda?
“Come spesso mi accade, mi sono avvicinato alla storia per caso. Sono stato invitato da amici liguri a visitare la Val Maira. Sapendo della mia passione per la montagna mi hanno detto: “Ma come, conosci tutte le Alpi e non sei mai stato nel profondo sud del Piemonte?”. Uno di questi amici ha una casa in quei luoghi, conosce tutto di quella natura incontaminata e intatta. Ma soprattutto è un discendente di un ‘caviè’, quindi mi ha portato a visitare il Museo di Elva, che altro non sono che tre stanze da girare in mezz’ora, ma dove ho visto attrezzi, foto, documenti, immagini, ricevute relativi a questa professione. Mi sono incuriosito e sono andato alla ricerca di tutto quello che potevo scoprire a riguardo”.
Cosa lo ha affascinato di più del mondo dei ‘caviè’?
“Innanzi tutto l’unicità della professione che si faceva solo lì. Poi il periodo descritto, gli inizi del ‘900, gli anni del pieno boom di questa professione che è andata via via scomparendo. Mi ha affascinato il mondo defilato di queste montagne, con case isolate, piccole frazioni abitate principalmente da donne, vero tessuto sociale di quei luoghi. A Elva ora ci sono meno di 100 abitanti dislocati su 28 frazioni; all’epoca del romanzo erano 1.300. Loro rappresentano il vero esempio di spopolamento della montagna. Quando tutti i paesi di montagna hanno iniziato a puntare sulla costruzione di impianti sciistici, gli abitanti del luogo si sono opposti alla costruzione di queste strutture ma sono stati ripagati quando ha iniziato a diffondersi la tendenza alla “vacanza verde” in luoghi incontaminati. Hanno iniziato ad arrivare turisti da tutta Europa, soprattutto francesi e olandesi che hanno rimesso in piedi le frazioni abbandonate, attraverso uno stile architettonico antico. Arrivando lì sembra di aver fatto un viaggio nel tempo”.
L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 22 novembre 2024
Laura Avidano