“E’ accaduto a due passi dalla biblioteca dell’Università, dove ultimamente ci siamo riuniti più volte, per preparare l’appuntamento con De Marzo. Il responsabile delle politiche sociali di Libera, ci chiede di cogliere, nel nesso tra ingiustizia sociale e ingiustizia ambientale, le ragioni del che fare, subito, qualcosa, che si opponga al collasso del pianeta. E’ accaduto nello stesso gruppo di edifici della ottocentesca caserma Colli di Felizzano, oggi di proprietà del Comune, destinatari di interventi di riuso, episodici e lentissimi perché privi di un progetto urbanistico. In un’area della città già vistosamente deterritorializzata dai flussi di denaro e di merce del mercato globale. Sono i flussi che hanno scomposto le funzioni dei vecchi Piani Regolatori, peraltro già rese alquanto provvisorie dalla cosiddetta “urbanistica contrattata”, quella che ha sciolto l’interesse pubblico nel rapporto, privato e alla pari, tra funzionari dell’assessorato all’urbanistica e “partito del mattone”. Diciamo flussi, quelli che moltiplicano i centri commerciali e spengono il commercio di prossimità; che producono “grandi eventi” nei centri e apartheid nelle periferie. De Marzo, con l’occhio all’America Latina, dice multinazionali dell’agro business, quelle che distruggono gli ecosistemi e allontanano le comunità che ne fanno parte da secoli, se occorre anche con la forza militare. Qui, là. Il tasso di predazione è diverso ma il sistema è lo stesso, quello neo-liberale che minaccia la sopravvivenza della specie, trasformando il pianeta in un immenso magazzino di valori di scambio. Lo scenario è questo, e serve per capire un po’ meglio quello che è accaduto, a due passi dalla biblioteca dell’Università. Il “marocchino andato a fuoco” nella palazzina degli ufficiali, era un alcolista, il che, per i professionisti della “riduzione del danno”, lo allontanava da domicili più protetti, come i “centri di accoglienza”. E’ una mezza verità. L’altra è che le persone come Mohammed se ne tengono alla larga perché ne avvertono più di altre il carattere disciplinare. Il Maina e adesso l’ex macello di viale Pilone. Chi c’è, non vede l’ora di andarsene e chi c’era, qualcuno per anni, non ne ha un buon ricordo. Ma Mohammed non era solo. Questo le cronache non lo dicono. Altri due connazionali avevano eletto il loro domicilio in quella palazzina. Accade ancora nella ex maternità, come accadeva nella ex mutua prima della “occupazione”, come accade nel nucleo di edilizia residenziale pubblica di C. Felice Cavallotti oppure ai Tetti Blu. Dove quei flussi, di denaro e di merci del mercato globale provocano, con il consenso delle amministrazioni pubbliche, dei vuoti di funzioni, là i “senza tetto” trovano un provvisorio domicilio. Rinchiudere queste persone nella categoria dei “senza tetto”, a prescindere dalla storia, dalle relazioni, dai bisogni e desideri, di ognuna di loro, significa concorrere a determinarne l’invisibilità e la solitudine. Oppure, di giorno, a determinarne la pericolosità. Infatti, insieme a disoccupati, lavoratori precari e senza diritti, militanti della giustizia sociale, immigrati non autorizzati, sono i destinatari dei “Daspo urbani”. E’ una misura compresa nei decreti “immigrazione e sicurezza”, con cui un sindaco può multare e stabilire un divieto di accesso ad alcune aree della città per chi «ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione» a strade, parcheggi, ferrovie e aeroporti. Una malcelata dichiarazione di guerra alla povertà. Come si vede, Mohammed non era un “senza tetto”. Faceva parte della moltitudine di persone che subisce il peggio di questa società neo-liberale. Il peggio di una disuguaglianza che si è formata mercificando tutto, anche la vita. Una moltitudine ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica, i lavoratori delle varie logistiche, e a un dispositivo digitale (tutti, anche i “senza tetto”, hanno almeno un telefono cellulare). C’erano molti Mohammed nelle esperienze delle “occupazioni” in città. Quelle esperienze di comunità in divenire, fondate su bisogni di vita ed esercizio di diritti di cittadinanza. Proprio quel loro voler essere comunità, quel loro modo di essere pubblicamente irrispettosi di una proprietà ridotta a totem dei valori di scambio, li ha resi incompatibili con le amministrazioni cittadine, di qualunque colore politico. Fino allo scioglimento della loro esperienza a colpi di processi, azioni di “riduzione del danno”, e alla fine, sgomberi esemplarmente violenti. Altra malcelata dichiarazione di guerra alla poverà. Dunque Mohammed, dandosi involontariamente fuoco, ha certificato in un sol colpo tutto questo. Gli dobbiamo gratitudine e rispetto. Il suo involontario sacrificio ci commuove, ma al tempo stesso ci indigna perché sappiamo che non è stato lui a condurre la sua storia a questo epilogo disumano. Quanti Mohamed dovranno ancora bruciare perché l’indignazione si tramuti in azione collettiva e cambi il corso delle cose? Apprendiamo che gli accessi alla palazzina degli ufficiali saranno murati in attesa che i lavori di ristrutturazione riprendano. Degli altri due “senza tetto” non sappiamo nulla. Sono già ricondotti all’invisibilità a alla solitudine. Appunto, come si diceva”.
Carlo Sottile