Il 6 luglio, a Baldichieri, si è tenuto il concerto di Francesco Tricarico per il Monferrato On Stage. Abbiamo intervistato il cantautore e pittore, che con quest’evento continua il suo tour “Faccio di tutto”.
Come è iniziato il suo approccio con la musica? Ha un idolo?
La formazione è classica, per cui ho studiato un po’ di tutto, dai madrigalisti, dal 300, poi da Bach, da Mozart, poi ho ascoltato in adolescenza tutti i cantautori italiani, varie cose del panorama internazionale che mi piacevano, ma non ho idoli, non ho nulla che si possa definire idolo.
Lei è anche pittore, come è nato questo percorso e come ha influito sulla sua produzione musicale? La musica è stata un’ispirazione per la pittura, o è stato il contrario? Le due cose sono collegate o sono separate a livello lavorativo?
Sono due forme molto diverse. Sono stati, fin da giovane, due mondi altri alla realtà, che mi hanno permesso, in un certo modo, di vivere in uno mio. Era una grande opportunità di creare un mondo differente. Quello dell’arte e della poesia offre questa grande chance di crearsi, laddove a volte ci sono varie problematiche, un mondo parallelo, legato all’immaginazione, per cui entrambe le due muse, le due arti, la musica e la pittura, mi hanno sempre accompagnato, mentre però per l’una, per la musica, ho seguito un percorso accademico, per la pittura e il disegno è rimasto tutto molto legato alla passione, ad incontri. Avevo un professore a liceo che viveva d’arte, per cui ci iniziò alle prime gallerie a Milano, a questo mondo così magnifico, così misterioso che era quello dell’arte. Però era rimasta sempre la mia passione che coltivavo parallelamente alla musica, quando la musica ha preso il sopravvento. Poi in questi anni ho incontrato un gallerista che ha guardato i lavori di questi anni e mi ha permesso di fare una mostra e adesso continuo a collaborare con lui, con Fabbrica Eos, a fare mostre, a dipingere, e avere questa grande possibilità di portare avanti queste due arti così differenti, ma così legate l’una all’altro, anche se entrambe poi tendono a essere molto gelose, come gli amori, insomma, sono molto distinte. Per cui quando dipingo, dipingo. Cerco di separare i due mondi.
E invece in merito alla sua produzione artistica, si ispira a qualcuno?
No, penso che dopo una certa età ispirarsi a qualcuno sia nefasto, sia controproducente. Credo che l’arte debba dare forma a cose interiori. Magari puoi trovare in qualcuno, in una lettura, in un brano qualcosa in cui ti riconosci, ma da un certo punto in poi devi andare nelle profondità più buie di te stesso, anche per trovare il diamante. Il diamante d’altronde si trova nelle montagne sotto tonnellate di terra. Cerco di ispirarmi a me stesso, di dare luce alle cose più belle che sono dentro di me. Credo che ognuno abbia questo grande tesoro dentro sé stesso. Senza presunzione, ma con lavoro.
“Io sono Francesco” è stato il suo grande successo. Un lavoro autobiografico. Il tema della famiglia, che lei ha in un qualche modo sradicato da quello che è il concetto tradizionale, per dimostrare che nella realtà è ben diverso, non applicabile a tutti. Ed è un tema discusso tutt’oggi. Cosa mi può dire in merito.
La famiglia è molto importante. Alla fine la famiglia è in sé un piccolo microcosmo che poi rispecchia la società. Nella canzone il ragazzo, che poi sono io, ma poi tante persone si sono riconosciute, non aveva una famiglia normale. Però questa normalità era un dato oggettivo, forse ancora di più nel 1970, quando io avevo vissuto quell’episodio. Quella canzone parla di ciò che anche adesso si cerca di, non so con quanta consapevolezza, con quanta strumentalizzazione, di ridefinire o di definire il senso di famiglia, il senso di struttura sociale che poi ne regge le fondamenta. Per cui in questo momento viviamo un momento estremamente caotico, estremamente, per certi aspetti, come ti dicevo prima, strumentalizzante, di strumentalizzazione di finti, di distruzione di valori, ma non per portarne di nuovi, insomma, ma anzi per creare, credo, un grande disordine, credo che si viva una grande confusione di valori a livello di guerre, di propaganda giornalistica, dove non è più informazione. Vedo una lotta per diritti oramai acquisiti laddove mancano i diritti oramai quasi alla base di cibo e di denaro. È come se si parlasse di fumo o se anche la stessa sinistra si battesse per diritti sicuramente importanti ma non fondamentali. C’era qualcuno che diceva che viviamo in tempi in cui ci si batte per, non lo dico con un senso di sdegno, ma con le piccole realtà, come se dovessero loro poi diventare dominanti e schiacciare la normalità. E tutto questo sembra quasi a volte un pretesto per non parlare della grave crisi che esiste in questo momento a livello economico, proprio di mera sopravvivenza del cittadino, di cui mi sembra che nessuno più si occupi. Comunque… la famiglia, alla fine, è un tema estremamente delicato, di cui in questo momento, e forse anche negli anni 70, ma comunque in modo diverso, si fa un uso strumentale, un uso legato all’apparenza. Pasolini insegnava in questo, diceva che saremmo arrivati ad un mutamento antropologico. Io sto proprio vedendo in questi anni un tentativo quasi di cambiare antropologicamente l’uomo. E là dove non hai una storia, un percorso di memoria, vedo che in questo momento, con i mezzi tecnologici che si ha e con la propaganda continua che viene usata, sta accadendo.
Riguardo uno degli ultimi singoli che è uscito, che fa da titolo anche al tour che ha come tappa quella a Baldichieri “Faccio di tutto”: come è nato?
É nato da un momento in cui vedevo tante cose ripetersi. A un certo punto la canzone dice: «non ho più niente da scrivere, non ho più niente da dire». Era una riflessione che facevo tra me e me, trovando poi l’esigenza di farlo, forse anche di scrivere che non ho più voglia di scrivere. Ci sono momenti in cui è meglio non scrivere, o non si ha più voglia di farlo, per cui quella canzone nasce da un momento di grande riflessione in cui poi c’era comunque la voglia di raccontare anche ciò che no, non volevo raccontare. Comunque ieri è uscito un altro singolo che si titola “Un’estate bellissima”.
Stessa domanda in merito a questa sua ultima uscita.
Parla di un’estate, un’estate triste. È di un po’ di anni fa, ma la trovo molto attuale. É “un’estate bellissima”, ma non è un’estate bellissima, è un’estate fantastica, encomiabile. La realtà, però, è diversa da quello che questo cantante canta. Insomma, vorrebbe andare al mare, in sintesi, ma c’è una piscina molto bella e quella piscina diventerà il mare. C’è un po’ di tristezza di fondo. Però poi c’è questo ritornello molto carino che fa cantare. Una delle cose che trovo in questo momento è che la musica pop sia molto lontana dalle persone, almeno da quella che vedo io. A Milano, in periferia, nel mio cortile, al bar dove vado a fare colazione, trovo che ci sia una grande distanza tra il ruolo che una volta aveva la musica, insomma, di far fischiettare o di essere colonna sonora e complice del popolo. Trovo che ci sia una grande distanza adesso tra la canzonetta e la musica pop e il popolo proprio, la gente in cui mi ci metto anch’io. È come se non ci fosse più una coesione sociale che a volte la musica popolare, con la sua grande forza, poteva fare. La musica è sempre stato un modo anche metaforico, allegorico, per parlare della vita senza rischiare le penne.
E questo lo nota negli ultimi anni, nell’ultimo decennio o già da prima?
Soprattutto nell’ultimo decennio. Negli ultimi vent’anni da che faccio discografia la musica è diventata sempre più intrattenimento. Una volta forse faceva riflettere e pensare. Adesso non più, anzi non deve. Sottofondo. Non deve disturbare. Questo era uno degli incipit principali delle radio, che una volta erano libere, che poi divennero commerciali. Poi ha preso il sopravvento l’internet, e credo che gli algoritmi facciano la stessa cosa, per cui gli esempi per i ragazzini sono molto bassi. Lo stesso meccanismo che era il non far pensare delle radio, per cui doveva essere “ridiamo tutti, va tutto bene, siamo tutti felici”, è diventato anche quello dell’algoritmo di Meta, di TikTok, eccetera. Se io apro Instagram, mi viene proposto il trapper, il rapper, ma io non li seguo, per cui c’è questo tentativo di imporre, rispetto alla distanza tra quella che era la musica, ma forse lo è sempre stato, il tentativo di imporre alla gente quello che l’industria vuole che vada. In questo momento il trapper è tutt’altro che qualcosa di ribelle, nessuno pensa, è una forma che loro hanno, questi ragazzini, di andare contro un sistema, però al fine non è che diano dei mezzi alti di riflessione. Danno questo cliché che non aiuta, certo, un’evoluzione. Io ho sempre un’idea, insomma, che le cose possono migliorare, però per migliorarle si deve studiare e cercare di fare cose belle.
Lei con la sua musica cerca anche un po’ di, diciamo, rivendicare quello che era il ruolo della musica, quello popolare, di unione o anche di ribellione?
Sì, a mio modo cerco di farlo. In ogni canzone c’è una piccola idea, è qualcosa che ritengo importante per arrivare a una mia verità. La verità è di per sé ribellione, laddove tutto è apparenza. Forse il mio fine era arrivare alla verità, capire determinati meccanismi che sono poi quelli della realtà, che cosa sia, cosa siamo al mondo a fare, dove andiamo, le tre domande che in questo momento sono più ribelli che mai: chi sono, dove sono, dove vai. Là dove neanche il Papa parla più di Dio, adesso. Non ci sono più grandi ostacoli, grandi mete, grandi modelli, è tutto molto basso. Per cui sì, io tendo all’alto.
Dana Proto