Maria Luisa Spaziani scende dalla sua stanza d’albergo al braccio della sorella Bianca. Un filo di rossetto, il cardigan blu, la camicia a pois. Gli occhi scrutatori: i molti luoghi, i molti volti di una vita li hanno velati senza impigrirli. Informandosi sul piccolo comitato di accoglienza astigiano che l’attende nella hall, Maria Luisa Spaziani sorride e tiene tutto sotto controllo. Viene voglia di andare a ritrovarla tra le pagine del manuale di letteratura delle superiori, la Volpe, e tra le righe di Eugenio Montale, ma sarebbe solo una tessera del mosaico, perché questa donna è Maria Luisa Spaziani, poeta. “Poetessa è un termine che andrebbe cancellato – spiega -. Se uno dice “Saffo è stata la più grande poetessa greca” afferma una cosa vera. Poi però se chiedono di elencare i più grandi poeti greci a Saffo si pensa per ultima. Invece non ci sono categorie diverse, ferme restando tutte le possibilità, tutti i valori di genere, io chiedo che mi si giudichi non in quanto donna ma perché ho scritto delle poesie e queste poesie mi rendono poeta”. Di lei infatti, sulla fascetta del libro “L’incrocio delle mediane”, Calvino scrisse: “Un raro caso di poeta che sia insieme ispirato e spiritoso”. Siamo partiti da questa “verità critica” per comprendere con lei la sua poetica. Come è riuscita a trattare temi altissimi, struggenti, senza perdere il sorriso? “Trovo che il massimo della poesia ispirata sia la preghiera. Dai tempi più antichi, perché ogni poesia è, a suo modo, una preghiera, in grado di distogliere lo sguardo dall’orizzontalità del nostro vivere e guardare un po’ al di sopra. C’è chi riesce a raggiungere i vertici massimi, chi si ferma a metà strada, ma non c’è poesia che rimanga all’orizzontalità pura e semplice dei discorsi di tutti i giorni: la politica, le tasse, le sciocchezze, tutto ciò che non è sublimabile. Raramente mi sono trovata d’accordo con qualcuno come con Italo Calvino, perché specialmente adesso, in questo secolo così povero, sono tra i pochissimi che rivendichino l’altezza del canto, fin dove sono capace. Poi, senz’altro, c’è anche l’essere spiritoso. Questa caratteristica mi mette in contatto con lo spirito del tempo, perché essere spiritosi è diventato un merito solo negli ultimi 150 anni, si pensi a Voltaire, che è ricordato soprattutto per la sua acutezza ridente, sbeffeggiante, ma sapeva bene che se si ridi di tutto si è degli imbecilli. Per me si tratta di un’eredità paterna, mio padre aveva un senso del comico straordinario, mangiavamo sempre ridendo. A 38 anni, durante la mia docenza all’università di Messina, il mio punto d’onore era riuscire a far ridere tutti almeno due volte durante le lezioni. Il che face approdare al mio corso di letteratura francese molti studenti di spagnolo, russo, tedesco. Tenevo lezioni che, senza perdere la loro scientificità ed esattezza, avevano un che di teatrale, con le stesse battute che si ritrovano in molte delle mie poesie e che finiscono per rovesciare le situazioni”. Un esempio? “Quando morì Montale, ricordo che ero in bicicletta nella pineta di Viareggio e fui avvertita da un passante. Pensai che in Inghilterra esiste un genere letterario preciso a cui ricorrere in morte di un poeta, e quello sarebbe stato il momento di scrivere una poesia di quel tipo. Ma sapevo che Montale sarebbe stato il primo a urlarmi: “Non lo fare!”. Allora scelsi di parlare di Montale usando i suoi simboli. Chiusi la mia poesia con il verso “Il meglio della seppia è l’osso, il resto è per i cuochi”. Montale, uomo attratto dalla cucina, sarebbe stato felice di leggere che non avevo usato vessilli, angeli, bandiere, spade ma cuochi, per il suo saluto funebre. Questa scelta lo avrebbe divertito”. Mondadori le ha dedicato un prestigioso posto tra i Meridiani… “Qui ad Asti per la prima volta ho l’occasione di festeggiare in grande questa pubblicazione. Vi hanno lavorato per tre anni 14 persone, con costi spaventosi per un editore. Le 70 pagine di introduzione di Paolo Lagazzi sono un capolavoro, così la biografia scritta da Pontiggia, c’è stata una cura minuziosa per tutte le sezioni dei 12 libri principali. Si potrebbe lavorare altrettanto con la mia opera di prosa, o con quello che ho scritto per il teatro, ma purtroppo i soldi spesi per questa edizione, tra un anno, sembreranno una follia dei secoli passati. E poi bisogna trovare librai che mettano in vista questi volumi, e lettori che li leggano. Ma stiamo andando verso la barbarie”. La sua è stata una poesia ispirata anche da molti luoghi. Samarcanda come il Canavese, Parigi e la Normandia come la Calabria e la Sicilia. Dell’Astigiano cosa le è rimasto? “Ad Agliano ho passato gli anni della guerra, i primi tre dell’università. La poesia di Orazio per me ha ancora l’odore delle foglie di Agliano, delle nebbie, delle castagne, delle mammole. I due Natali che passammo là furono favolosi, tanto che in una poesia che mi è molto cara, quella del cappotto liso, racconto che ogni volta che ho amato un uomo, cosa che è capitata sei volte nella mia vita, ho sempre pensato: “Ecco, quest’uomo sarebbe stato degno di essere con me in quella notte di Natale, in una chiesetta bombardata, nel gelo della solitudine, con la mia famiglia e pochi amici, un vecchio prete ultraottantenne che dopo la Messa aprì un certo vino, che aveva da parte da tanti anni e ce lo offrì” (… “Ma un Natale/ di guerra ora m’investe – era un paese/ di fame e neve, la chiesa bombardata. / Se il nastro della storia andasse indietro / ti vorrei là, in un cappotto liso. / Nel gruppo dei miei cari tu mancavi, / tu solo ormai, terribilmente vivo”. Ndr). Quel vino era orribile, per inciso. Ma l’Astigiano e gli ippocastani sono ancora nella mia mitologia, più di tutto il resto”. C’è una poesia in particolare, dedicata a una Parigi che le sta sfuggendo: “Credevo che mi aspettasse un tempo inconsumabile”, scrive. “Parigi era la mia città. La percorrevo al volo, da un capo all’altro, l’ho amata follemente, la sapevo, la sentivo. Adesso cammino male. Ma non perché sia invecchiata, è che ho preso a calci una radice rompendomi tre dita, dopo aver scritto una poesia sugli alberi. Sono vendicativi, gli alberi”. La sua vita è stata anche ricchissima di incontri, collaborazioni, affetti con altri poeti. C’è una poesia che ha impressa nella memoria? “Certo, e parlo del vangelo della poesia del Novecento: la prima parte degli “Ossi di seppia”, “Mediterraneo” è di una intensità, di una concentrazione, un’illuminazione mai detta. Non è possibile andare oltre. Lo ribadisco, “Mediterraneo” di Montale sarà il vangelo del Novecento. Bisognerebbe farla leggere ai bambini, non perché la imparino, ma per far capire loro cosa dice la poesia. Leggere la poesia significa, alla lunga, saperla, non impararla. Quando ero a scuola sapevo “Piemonte” di Carducci, poema a saffiche che dura 14 pagine. La so ancora tutta a memoria. Come la prima ecloga di Virgilio o alcuni epodi di Orazio, e Dante. In quinta elementare una maestra meravigliosa ci fece studiare l’ultimo canto della Divina Commedia. Mi è rimasto sempre dentro, per il suo ritmo interno ed esterno. Quella poesia è diventata musica”. Marianna Natale