Il nostro vescovo Marco è volato in Kenya. Per le sue vacanze ha scelto di tornare in Africa dove, nella Diocesi di Mararal, era stato in missione per 13 anni. Sbrigate gli ultimi impegni mercoledì è arrivato a Nairobi e ci racconta i suoi giorni fra vecchi amici e nuovi incontri.
Mercoledì 10 luglio
3,30 del mattino con don Valerio, un amico prete che mi accompagna, usciamo dal Vescovado iniziando il nostro viaggio. Alle 5 siamo già in aeroporto con macchina parcheggiata e bagagli spediti. Io viaggerò via Parigi, don Valerio via Amsterdam e ci ritroveremo questa sera a Nairobi, non abbiamo trovato posto sullo stesso volo.
A Parigi lunga sosta. Ripenso a quando, nel settembre del 1999 rientrai per la prima volta in Kenya dopo il corso di inglese a Londra e dopo le settimane di formazione sull’Africa a Verona. Mi accompagnarono i miei genitori, volevano vedere dove abitavo e con chi abitavo così “quando ti pensiamo sappiamo dove collocarti”. Quella loro rapida venuta gli aiutò molto a vivere serenamente il distacco e la distanza.
Durante il viaggio penso a ciò che mi attende. Avrei desiderato rivedere Nimo, ragazza madre a 15 anni, l’avevamo aiutata, aveva frequentato un corso triennale di computer. Aveva poi trovato lavoro in un albergo in uno dei parchi naturali del Kenya. L’avevano assunta perché al colloquio di selezione era riuscita ad aggiustare il computer rotto. Ha lavorato con impegno, ha fatto anche carriera diventando responsabile del personale. A gennaio ci siamo sentiti al telefono, l’avevano appena operata per un tumore al seno. Per l’operazione aveva speso tutti i suoi risparmi. Con un gruppo di amici l’abbiamo aiutata a pagare la chemioterapia. A inizio giugno sembrava andasse tutto bene, ma poi ha avuto un crollo, problemi respiratori, ed il 19 giugno è mancata. L’avevo sentita al telefono tre giorni prima, era in ospedale, con un filo di voce e molto debole. Le avevo promesso che sarei passato a salutarla, mi aveva detto “si Bishop ti aspetto”. Me la ricordo ragazzina con il suo sguardo sempre spaventato, sorrido ripensando a quando al tempo del corso di computer mi disse:“padre la mattina ci alziamo molto presto e a pettinarmi mi ci va almeno mezz’ora, puoi farmi avere un euro in più così una volta al mese vado dalla parrucchiera, mi faccio le treccine e posso dormire un po’ di più?” L’ultima volta che la incontrai fu nel 2016 a Nairobi durante una visita ai missionari torinesi, venne a salutarmi insieme ad altri, la ricordavo ragazza, la rividi adulta, donna forte, di una fortezza e serenità impensata nel passato. Lascia due figli, Mike e Leboo (colui che è nato davanti alla porta di casa) anche loro con lo stesso sguardo spaventato e smarrito della mamma.
Chi invece rivedrò è William. Mi ricordo quando lo salutai nell’ottobre del 2011, prima di rientrare in Italia, pensai che non lo avrei mai più visto, perché sarebbe morto da lì a poco. William è un bambino malato di Aids, come sua mamma che è già mancata. Ora sta con la sorella maggiore, va a scuola, prende le medicine tutti i giorni, mangia bene e regolarmente, insomma vive “in modo positivo”. Chissà come sarà cresciuto. Ricordo quando lo salutai. Quel giorno gli avevo regalato una maglietta e dei pantaloncini. Lo rivedo andare via saltellando felice con il sacchetto del regalo. La sorella mi raccontò che quella notte William non dormì, preoccupato di controllare che nessuno gli prendesse la maglietta e i pantaloncini ricevuti. In questi anni ha tribolato molto, ma è vivo e ci rivedremo!
Intanto il viaggio prosegue: l’aereo sorvola la Francia, la svizzera, passa sull’Italia, quindi attraversa il mediterraneo, sorvola il Sahara, passa sull’Etiopia e finalmente arriva in Kenya, per un totale di 6500 km.
Sono le 21 (le 20 in Italia) quando atterro nella addormentata Nairobi. Ad attendermi c’è don Paolo. Appena mi vede mi sorride, il sorriso che sempre segna la fine di un viaggio e ti dice che sei a casa. Ripenso ai sorrisi con cui mio papà fino al 2006 mi accoglieva orgoglioso a Caselle quando rientravo a Torino per le vacanze.
Un’ora dopo arriva don Valerio. Ci siamo tutti.
In un quarto d’ora arriviamo a Tassia, nella parrocchia affidata alla diocesi di Torino dal 2012. Grande quartiere della periferia di Nairobi fatto di tantissimi palazzi, ogni volta che vengo ce ne sono sempre di nuovi e sempre più appiccicati l’uno all’altro. Continuo a trovare affascinante il grande caos, il continuo movimento, questa vita sempre portata all’estremo che caratterizza Tassia.
Giovedì 11 luglio
Andiamo a salutare il cardinal Njue, l’arcivescovo di Nairobi. Il suo ufficio è in pieno centro città. Alcuni anni fa nel cortile della Cattedrale ha fatto costruire una palazzina, l’Odinga Plaza, perché potesse generare reddito per la diocesi. Fu molto criticato per l’iniziativa, chiese un contributo molto alto ad ogni parrocchia, qualcuno protestò ma alla fine tutti dovettero contribuire. Qualcun altro trovò l’iniziativa poco opportuna, in una diocesi con tantissimi poveri, costruire un palazzone di lusso sembrava proprio un controsenso. Il Cardinale, molto tenace, portò a termine l’opera che ora fornisce preziosi mezzi di sussistenza alla diocesi.
Il suo ufficio è al settimo piano con vista sulla città e con un grandissimo quadro della Consolata che ti accoglie. Ci riceve cordialmente e con affetto. Gli ho portato alcune foto della mia ordinazione, quella in cui mi impone le mani l’ho incorniciata. Sembra gradirla perché la mette su un ripiano in evidenza.
Finito l’incontro passiamo in libreria dalle suore paoline, dove acquisto alcuni vangelini in Inglese da usare per gli incontri di preparazione al battesimo che una delle suore della Pietà fa ad Asti per i catecumeni stranieri.
Rientriamo a Tassia godendoci il caos terribile del traffico. Nairobi è una città di più di 5 milioni di abitanti, più della metà di essi abitava nelle baraccopoli, oggi, moltissimi stanno in quartieri come Tassia che sono sempre baraccopoli, ma in verticale.
A sera attraversiamo il quartiere a piedi: traffico, folla che cammina, fango e la puzza inconfondibile di Tassia. Andiamo a celebrare la messa in una delle comunità della parrocchia. Sono gruppi di famiglie che si riuniscono ogni settimana nella casa di qualcuno di loro, pregano insieme, meditano la parola di Dio, si organizzano per aiutare chi fra loro o nei loro palazzi ha dei problemi e si rendono disponibili per dei servizi in parrocchia (a turno puliscono la chiesa, animano la liturgia…)
Mi è sempre piaciuto celebrare la messa nelle case, lì dove si svolge la vita vera e concreta delle persone. Questa sera siamo in un piccolo alloggio di due stanzette, in uno dei tanti palazzoni. Siamo in tanti, tutti schiacciati, qualcuno rimane fuori sul pianerottolo, un nugolo di bambini osserva tutto con occhi e bocche spalancate. Il divano fa da sede per la celebrazione e il tavolinetto da altare. Cantano con gioia molti canti, si proclama la Parola di Dio, la commentiamo, poi all’offertorio vengono portati alcuni sacchetti con un po’ di farina, dei pomodori, un pezzo di sapone: sono per i poveri. Sempre tutti schiacciati e ormai accaldati riceviamo il corpo di Cristo. Al termine ricevo molte preghiere e benedizioni per il mio episcopato. La cosa mi incoraggia perché Dio ascolta sempre la preghiera del povero e del semplice.
Ho portato per loro una statuetta della Vergine Maria. Sono contentissimi. A conclusione ci offrono una bibita, per chi vuole del te, per tutti dei mandazi (frittelle dolci). Rientriamo a casa, le strade infangate, nonostante l’ora, brulicano di gente, il commercio di cibo cotto sulla strada è attivissimo. Domani partiremo presto. Col Vescovo Pante attraverseremo il Kenya per arrivare a Maralal, la sua diocesi, “il mio Kenya”.