Papa Francesco ha da poco concluso la celebrazione eucaristica nella Cattedrale di Asti. Una celebrazione commovente, dove il Santo Padre ha parlato a lungo, ripetendo più volte che Cristo accoglie a brasa aduerte
Ecco la sua Omelia
Abbiamo visto questo ragazzo, Stefano, che chiede di ricevere il ministero di accolito nel suo percorso verso il sacerdozio. Dobbiamo pregare per lui, perché vada avanti nella sua vocazione e sia fedele; ma anche dobbiamo pregare per questa Chiesa di Asti, perché il Signore invii vocazioni sacerdotali, perché come voi vedete la maggioranza sono vecchi, come me: ci vogliono preti giovani, come alcuni di qua che sono bravissimi. Preghiamo il Signore perché benedica questa terra.
E da queste terre mio padre è partito per emigrare in Argentina; e in queste terre, rese preziose da buoni prodotti del suolo e soprattutto dalla genuina laboriosità della gente, sono venuto a ritrovare il sapore delle radici. Ma oggi è ancora una volta il Vangelo a riportarci alle radici della fede. Esse si trovano nell’arido terreno del Calvario, dove il seme di Gesù, morendo, ha fatto germogliare la speranza: piantato nel cuore della terra ci ha aperto la via al Cielo; con la sua morte ci ha dato la vita eterna; attraverso il legno della croce ci ha portato i frutti della salvezza. Guardiamo dunque a Lui, guardiamo al Crocifisso.
Sulla croce appare una sola frase: «Costui è il re dei Giudei» (Lc 23,38). Ecco il titolo: Re. Però, osservando Gesù, la nostra idea di re viene ribaltata. Proviamo a immaginare visivamente un re: ci verrà in mente un uomo forte seduto su un trono con delle insegne preziose, uno scettro tra le mani e anelli luccicanti tra le dita, mentre proferisce ai sudditi parole solenni. Questa, grosso modo, è l’immagine che abbiamo in testa. Ma guardando Gesù, vediamo che è tutto il contrario. Egli non è seduto su un comodo trono, ma appeso ad un patibolo; il Dio che «rovescia i potenti dai troni» (Lc 1,52) opera come servo messo in croce dai potenti; ornato solo di chiodi e di spine, spogliato di tutto ma ricco di amore, dal trono della croce non ammaestra più le folle con la parola, non alza più la mano per insegnare. Fa di più: non punta il dito contro nessuno, ma apre le braccia a tutti. Così si manifesta il nostro Re: a braccia aperte, a brasa aduerte.
Solo entrando nel suo abbraccio noi capiamo: capiamo che Dio si è spinto fino a lì, fino al paradosso della croce, proprio per abbracciare tutto di noi, anche quanto di più distante c’era da Lui: la nostra morte – Lui ha abbracciato la nostra morte -, il nostro dolore, le nostre povertà, le nostre fragilità e le nostre miserie. E Lui ha abbracciato tutto questo. Si è fatto servo perché ciascuno di noi si senta figlio: ha pagato con la sua servitù la nostra figliolanza; si è lasciato insultare e deridere, perché in ogni umiliazione nessuno di noi sia più solo; si è lasciato spogliare, perché nessuno si senta spogliato della propria dignità; è salito sulla croce, perché in ogni crocifisso della storia vi sia la presenza di Dio. Ecco il nostro Re, Re di ognuno di noi, Re dell’universo perché ha valicato i confini più remoti dell’umano, è entrato nei buchi neri dell’odio, nei buchi neri dell’abbandono per illuminare ogni vita e abbracciare ogni realtà. Fratelli, sorelle, questo è il Re che oggi festeggiamo! Non è facile capirlo, ma è il nostro Re. E la domanda da farci è: questo Re dell’universo è il Re della mia esistenza? Io credo a Lui? Come posso celebrarlo Signore di ogni cosa se non diventa anche il Signore della mia vita? E tu che oggi incominci questa strada verso il sacerdozio non dimenticarti che questo è il tuo modello: non aggrapparti agli onori, no. Questo è il tuo modello; se tu non pensi di essere sacerdote come questo Re, meglio fermati lì.
Fissiamo però ancora gli occhi in Gesù Crocifisso. Vedi, Lui non osserva la tua vita per un momento e basta, non ti dedica uno sguardo fugace come spesso facciamo noi con Lui, ma Lui rimane lì, a brasa aduerte, a dirti nel silenzio che niente di te gli è estraneo, che vuole abbracciarti, rialzarti, salvarti così come sei, con la tua storia, le tue miserie, i tuoi peccati. Ma Signore, è vero? Con le mie miserie tu mi ami così? Ognuno in questo momento pensi alla propria povertà: “Ma, tu mi ami con queste povertà spirituali che ho, con queste limitazioni?”. E Lui sorride e ci fa capire che ci ama e ha dato la vita per noi. Pensiamo un po’ ai nostri limiti, anche alle cose buone: Lui ci ama come noi siamo, come siamo adesso. Lui ci dà la possibilità di regnare nella vita, se ti arrendi al suo amore mite che si propone ma non s’impone – l’amore di Dio non si impone mai – al suo amore che sempre ti perdona. Noi tante volte ci stanchiamo di perdonare la gente e facciamo la croce, facciamo la sepoltura sociale. Lui non si stanca mai di perdonare, mai, mai: sempre ti rimette in piedi, sempre ti restituisce la tua dignità regale. Sì, la salvezza da dove viene? Dal lasciarci amare da Lui, perché solo così veniamo liberati dalla schiavitù del nostro io, dalla paura di essere soli, dal pensare di non farcela. Fratelli, sorelle, mettiamoci spesso davanti al Crocifisso, lasciamoci amare, perché quelle brasa aduerte dischiudono anche a noi il paradiso, come al “buon ladrone”. Sentiamo rivolta a noi quella frase, l’unica che Gesù dice oggi dalla croce: «Con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Questo vuole e vuol dirci Dio, a tutti noi, ogni volta che ci lasciamo guardare da Lui. E allora capiamo di non avere un dio ignoto che sta lassù nei cieli, potente e distante, no: un Dio vicino, la vicinanza è lo stile di Dio: la vicinanza, con tenerezza e misericordia. Questo è lo stile di Dio. non ha un altro stile. Vicino,
misericordioso e tenero. Tenero e compassionevole, le cui braccia aperte consolano e accarezzano. Ecco il nostro Re!
Fratelli, sorelle, dopo averlo guardato, che cosa possiamo fare? Il Vangelo oggi ci pone davanti a due strade. Di fronte a Gesù c’è chi fa da spettatore e chi si coinvolge. Gli spettatori sono molti, la maggioranza. Guardano, è uno spettacolo veder morire uno in croce. Infatti – dice il testo –
«il popolo stava a vedere» (v. 35). Non era gente cattiva, tanti erano credenti, ma alla vista del Crocifisso restano spettatori: non fanno un passo in avanti verso Gesù, ma lo guardano da lontano, curiosi e indifferenti, senza interessarsi davvero, senza chiedersi che cosa poter fare. Avranno commentato, forse: “Ma guarda questo…” avranno espresso giudizi e pareri: “Ma è innocente, guarda questo così…” qualcuno si sarà lamentato, ma tutti sono rimasti a guardare con le mani in mano, a braccia conserte. Ma anche vicino alla croce ci sono degli spettatori: i capi del popolo, che vogliono assistere allo spettacolo cruento della fine ingloriosa di Cristo; i soldati, i quali sperano che l’esecuzione finisca presto, per andarsene a casa; uno dei malfattori, che scarica su Gesù la sua rabbia. Deridono, insultano, si sfogano.
E tutti questi spettatori condividono un ritornello, che il testo riporta tre volte: “Se sei re, salva te stesso!” (cfr vv. 35.37.39) Lo insultano così, lo sfidano! Salva te stesso, esattamente il contrario di quello che sta facendo Gesù, che non pensa a sé, ma a salvare loro, che lo insultano. Però il salva te stesso contagia: dai capi ai soldati alla gente, l’onda del male raggiunge quasi tutti. Ma pensiamo che il male è contagioso, ci contagia: come quando noi prendiamo una malattia infettiva, ci contagia subito e quella gente parla di Gesù ma non si sintonizza neanche un momento con Gesù. Prende la distanza e parla. È il contagio letale dell’indifferenza. Una brutta malattia l’indifferenza. “Questo non tocca me, non tocca me”. Indifferenza verso Gesù e indifferenza anche verso i malati, verso i poveri, verso i miseri della terra. A me piace domandare alla gente, e domando ad ognuno di voi; so che ognuno di voi dà l’elemosina ai poveri, e io vi domando: “Quando tu dai l’elemosina ai poveri, li guardi negli occhi? Sei capace di guardare agli occhi di quel povero o quella povera che ti chiede l’elemosina? Quando tu dai l’elemosina ai poveri, tu butti la moneta o gli tocchi la mano? Sei capace di toccare una miseria umana?”. Ognuno poi si dia la risposta oggi. Quella gente era nell’indifferenza. Quella gente parla di Gesù ma non sintonizza con Gesù. E questo è il contagio letale dell’indifferenza: che crea delle distanze con le miserie. L’onda del male si propaga sempre così: comincia dal prendere le distanze, dal guardare senza far nulla, dal non curarsi, poi si pensa solo a ciò che interessa e ci abitua a girarsi dall’altra parte. È questo è un rischio anche per la nostra fede, che appassisce se resta una teoria non diventa pratica, se non c’è coinvolgimento, se non ci si spende in prima persona, se non ci si mette in gioco. Allora si diventa cristiani all’acqua di rose – come io ho sentito dire a casa mia – che dicono di credere in Dio e di volere la pace, ma non pregano e non si prendono cura del prossimo e anche, a loro non interessa Dio, né la pace. Questi cristiani soltanto di parola, superficiali!
Questa era l’onda cattiva, che era lì al Calvario. Ma c’è anche l’onda benefica del bene. Tra tanti spettatori, uno si coinvolge, cioè il “buon ladrone”. Gli altri ridono del Signore, Lui gli parla e lo chiama per nome: “Gesù”; tanti gli gettano addosso la loro rabbia, lui confessa a Cristo i suoi sbagli; molti dicono “salva te stesso”, Lui prega: «Gesù, ricordati di me» (v. 42). Chiede soltanto questo al Signore. Bella preghiera questa. Se ognuno di noi la recita tutti i giorni è una bella strada: la strada della santità: “Gesù ricordati di me.” Così un malfattore diventa il primo santo: si fa vicino a Gesù per un istante e il Signore lo tiene con sé per sempre. Ora, il Vangelo parla del buon ladrone per noi, per invitarci a vincere il male smettendo di rimanere spettatori. Per favore, questo è peggio di fare il male, l’indifferenza. Da dove cominciare? Dalla confidenza, dal chiamare Dio per nome, proprio come ha fatto il buon ladrone, che alla fine della vita ritrova la fiducia coraggiosa dei bambini, che si fidano, chiedono, insistono. E nella confidenza ammette i suoi sbagli, piange ma non su sé stesso, bensì davanti al Signore. E noi, abbiamo questa fiducia, portiamo a Gesù quello che abbiamo dentro o ci mascheriamo davanti a Dio, magari con un po’ di sacralità e di incenso? Per favore, non fare la spiritualità del trucco: quella è noiosa. Davanti a Dio: acqua e sapone, soltanto, senza trucco, ma l’anima così com’è. E da lì viene la salvezza. Chi pratica la confidenza, come questo buon ladrone, impara l’intercessione, impara a portare a Dio quello che vede, le sofferenze del mondo, le persone
che incontra; a dirgli, come il buon ladrone: “Ricordati, Signore!”. Non siamo al mondo solo per salvare noi stessi, no: ma per portare i fratelli e le sorelle nell’abbraccio del Re. Intercedere, ricordare al Signore, apre le porte del paradiso. Ma noi, quando preghiamo, intercediamo? “Ricordati Signore, ricordati di me, della mia famiglia, ricordati di questo problema, ricordati, ricordati….” Attirare l’attenzione del Signore.
Fratelli, sorelle, oggi il nostro Re dalla croce ci guarda a brasa aduerte. Sta a noi scegliere se essere spettatori o coinvolti. Sono spettatore o voglio essere coinvolto? Vediamo le crisi di oggi, il calo della fede, la mancanza di partecipazione… Che cosa facciamo? Ci limitiamo a fare teorie, ci limitiamo a criticare, o ci rimbocchiamo le maniche, prendiamo in mano la vita, passiamo dal “se” delle scuse al “sì” della preghiera e del servizio? Tutti pensiamo di sapere che cosa non va nella società, tutti; parliamo tutti i giorni di che cosa non va nel mondo e anche nella Chiesa: tante cose non vanno nella Chiesa. Ma poi facciamo qualcosa? Ci sporchiamo le mani come il nostro Dio inchiodato al legno o stiamo con le mani in tasca a guardare? Oggi, mentre Gesù, spogliato sulla croce, toglie ogni velo su Dio e distrugge ogni falsa immagine della sua regalità, guardiamo a Lui, per trovare il coraggio di guardare a noi stessi, di percorrere le vie della confidenza e dell’intercessione, di farci servi per regnare con Lui. “Ricordati Signore, ricordati”: Facciamo questa preghiera più spesso. Grazie.