La Rete è ormai parte integrante della vita umana quotidiana; ne riflette scelte, abitudini, complessità, meccanismi, come uno specchio sulle schermo dei nostri smartphone o dei nostri tablet.
E inevitabilmente, come il sentiero dell’esistenza, anche il nostro passaggio tra siti, social, download e strumenti on line è assolutamente tracciabile e identificativo.
Su questo si basa l’etnografia digitale, attraverso il setacciamento degli smalldata per migliorare le strategie di comunicazione e intravedere come sarà il nostro futuro.
Alice Avallone, classe 1984, astigiana, è cresciuta a pane e Internet, insegna alla Scuola Holden di Torino. Da diversi anni è animatrice di ricerche e progetti sull’antropologia digitale.
Nel suo ultimo libro, edito da Hoepli #Datastories – Seguire le impronte umane sul digitale”, presenta in modo concreto l’approccio più umanistico al lavoro di “digital strategist”, arrivando all’etnografia digitale. Per avere uno sguardo più autentico e vicino alle persone. L’abbiamo intervistata sull’argomento.
Alice, spiegaci meglio il concetto di Smalldata.
“Sono una chiave di lettura che apre davvero una grande finestra sui comportamenti umani: sono piccole tracce che restituiscono profondità ai big data, ai numeri, e anche alle analisi di mercato, ai sondaggi, ai focus group. È proprio questa profondità il valore aggiunto di cui possono beneficiare le aziende, e poter fare la differenza, soprattutto all’interno di strategie digitali e di contenuto. Sono stelle più luminose, che spesso balzano agli occhi perché pulsano in maniera anomala. La connessione tra le parole, i comportamenti delle persone e la rete è molto forte, soprattutto da quando il digitale è estensione naturale delle nostre vite. Per questo ho unito alle scienze sociali la ricerca in rete, con lo scopo di comprendere le relazioni umane online analizzando codici, comportamenti e linguaggi che le persone usano”.
Tutti ci siamo accorti, soprattutto nell’ultimo anno, a causa del lockdown, quanto la Rete sia diventata la proiezione del momento che stiamo ancora vivendo. Cosa ha cambiato il coronavirus?
“L’emergenza sanitaria non ci ha reso persone migliori; semplicemente, ci ha resi più “noi stessi”, più autentici agli occhi degli altri. Abbiamo ridiscusso le nostre priorità, rallentato ritmi che prima erano forsennati. Abbiamo bisogno di sapere di più, di condividere, di metterci in contatto con il mondo. Da qui è cambiato il modo di raccontare e di ascoltare. Una sorta di ritorno agli antichi rituali, come l’intimità delle nostre abitazioni, la convivialità con i congiunti, passando dalla panificazione alla diffusione di immagini più personali e domestiche. Abbiamo forse tolto il velo di finzione che la società, virtuale e reale, ci ha imposto, mostrandoci anche più vulnerabili e sensibili”.
Come vivono questa dimensione gli adolescenti?
“Prima la tecnologia digitale e i social erano lo spartiacque con le generazioni precedenti. Ora è avvenuto un contatto, soprattutto tra nonni e nipoti, per compensare anche il fatto che il contatto sociale, fondamentale per costruire una identità adulta, sta venendo a mancare”.
L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 5 marzo 2021
Manuela Caracciolo