“Oggi la sola differenza possibile tra gli esseri umani, dal mio punto di vista, riguarda i sofferenti e i non sofferenti. Chi vive la sofferenza e chi la guarda. Il mio mestiere è quello di raccontare la sofferenza per innescare il meccanismo della compassione, della pietà”. Questo diceva Domenico Quirico nel suo intervento al Cortile dei Dubbiosi. Quando, all’inizio di questa intervista, glielo ricordo, Quirico mi dice: “Era molti anni fa”. No, era il dicembre scorso. Ma questo aiuta forse a capire come la percezione del tempo abbia un binario più lento e uno più veloce, in certe situazioni. Lo ha detto, scritto, ripetuto: i mesi non si misurano in giorni, quando si è prigionieri, ma in minuti, secondi, istanti infiniti. Vorrei che partissimo da una convinzione che lei espresse in quell’incontro, nove mesi fa: “Io racconto i luoghi in cui Dio c’è e vive”. E’ ancora vera? Devo correggermi in parte. In questa mia storia durata cinque mesi Dio è stato molto presente, essendo io un credente, e in queste condizioni non si è mai soli, anche quando Dio apparentemente è assente, non ti aiuta, pare lasciarti nella disgrazia, Dio è lì. In Siria Dio sembra essere ovunque nel senso che lo si prega cinque volte al giorno. Lo pregano i ribelli, lo pregano i governativi, lo pregano i jihadisti. Ma in una terra in cui non c’è pietà, non c’è compassione o rimorso non so se Dio sia realmente così presente. Mi sono trovato a dire che la Siria è la terra del male, una regione che Dio ha consegnato al demonio, dicendogli: “Questa terra è tua, se qualcuno entra qui a me non interessa, non lo aiuterò”. Ho riscontrato l’assenza del carattere costitutivo di ogni religione: il concetto di rimorso. In Siria si fa il male e non c’è rimorso, si prega accanto a chi si martirizza. Mi domando se quella fede di cui avevo visto la straordinaria potenza non sia semplicemente rito e manchi di fondo, quello che per noi cattolici è davvero fede. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, insegna il cattolicesimo. Per noi la fede è soprattutto amore. In Siria forse ora la fede è un rito vuoto, un pronunciare formule che non hanno senso, perché manca il fondamento: l’amore per il prossimo. Professionalmente, e umanamente, cosa insegna questa esperienza? Per la prima volta mi sono accorto che commettevo un orribile peccato: quella della vanità. Per il mio orgoglio, per soddisfare il mio desiderio di andare al limite estremo, a svelare e testimoniare la sofferenza degli altri, non mi rendevo conto della sofferenza che io stesso infliggevo a chi mi ama: i parenti, gli amici, costringendoli a soffrire per me, per un periodo così lungo. Se uscirò da questa esperienza migliore di come ero prima, non peggiore, dovrò acquisire la virtù complessa dell’umiltà. Vivo la mia esistenza nei termini di quelli che ritengo essere due estremi: il peccato e la grazia. Il peccato è parte di noi, è ciò che ci fa uomini, ma c’è anche la grazia che dobbiamo meritare, che non arriva per volontà divina. Arriva con l’espiazione, passando attraverso il rastrello della pazienza e dell’accettazione del dolore. In cinque mesi credo di essere passato attraverso il rastrello della pazienza, e spero di essere una persona migliore. Che sentimento prova verso i suoi carcerieri? Sono passato nelle mani di vari gruppi di custodi, di guardiani. L’atteggiamento verso di loro, sorprendentemente, era per lo più freddo. Non provavo rabbia o disperazione. Di alcuni emergevano aspetti che, mentre ero lì, non avrei mai pensato di ricordare, convinto che avrei ripensato sempre alla parte peggiore: l’indifferenza al mio dolore. Adesso mi viene in mente quando uno di loro, in una delle tante volte in cui sembrava che la mia liberazione potesse essere imminente, mi disse: “Adesso tu torni a casa, sei libero. Noi restiamo qui, ancora prigionieri”. Ecco, eravamo tutti prigionieri di qualcosa. Io ero prigioniero loro, loro erano prigionieri della guerra, che non li lascerà liberi per chissà quanto tempo ancora. Nel nostro rapporto, così ambiguo e sproporzionato, esisteva una forma di uguaglianza e identità. Io ostaggio della loro malvagità, loro ostaggi di una malvagità complessiva di un Paese, di un sistema. L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 20 settembre. Marianna Natale