Il centro antiviolenza “L’Orecchio di Venere” è innanzitutto un posto dove si possono portare i segreti, una piccola stanza che raccoglie un numero interminabile di storie. Chi arriva all’Orecchio di Venere può dichiarare il proprio nome o accedere in forma anonima, può limitarsi a chiedere informazioni o raccontare di sé. Le operatrici spiegheranno alla donna quali servizi offre il centro, quali figure professionali sono a sua disposizione e che in qualsiasi percorso che deciderà di intraprendere non sarà lasciata sola. Valuteranno con lei il rischio di rientrare a casa, l’urgenza di ricorrere subito alle cure del pronto soccorso o la necessità di rivolgersi al medico di famiglia. Le diranno che potrà tornare in qualsiasi momento per altri colloqui e le daranno informazioni sui servizi del territorio che potrebbero sostenere lei e i suoi figli. Ma le spiegheranno chiaramente anche che la violenza è reato e che, se la vita è in pericolo, occorre mettersi in sicurezza, che ci sono strutture protette, come il letto segreto o l’“appartamento di sollievo”, in cui trovare rifugio con i figli. Soluzioni concordate con le forze dell’ordine e condivise con altri enti per garantire il massimo della protezione. 

Elisa Chechile è la responsabile del centro antiviolenza di Asti.

Quante persone si sono rivolte al vostro centro quest’anno?

“Tra gennaio e ottobre sono 930 le persone che hanno contattato il centro per avere informazioni. Abbiamo riscontrato un incremento di chiamate nel corso dell’estate, soprattutto da parte di giovani in cerca di informazioni. L’estate è quel periodo in cui terminano le attività, la scuola finisce e si passa più tempo in casa, quindi si entra più a contatto con le situazioni difficili. Si tratta di ragazzi che vivono con genitori violenti oppure giovani che vivono le prime relazioni affettive e trascorrono più tempo insieme nel periodo di vacanza. La triste vicenda di Giulia Cecchettin ha avuto molta risonanza, ha scosso le coscienze e da lì molte persone, soprattutto giovani, hanno iniziato a farsi delle domande sulle proprie relazioni”.

Quale forma di violenza è più denunciata? Verbale, fisica, psicologica?

“Quella verbale, vissuta anche in contesti diversi dalle relazioni più strette. La violenza verbale è dilagante per strada, sui mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici. Si sono rivolte a noi molte persone fragili che vengono attaccate, denigrate o non considerate nelle loro difficoltà. Molti giovani denunciano, invece, attacchi verbali da parte di adulti che li denigrano, si sentono spesso inascoltati e non considerati. Abbiamo, inoltre, avuto due casi di insegnanti che sono stati minacciati da genitori di alunni durante i colloqui, che si sono sentiti disconfermati nel loro ruolo educativo. Per quanto riguarda la violenza psicologica spesso è misconosciuta; le donne non si rendono conto di esserne oggetto attraverso limitazione della loro libertà e controllo di ciò che fanno. Quest’anno poi abbiamo riscontrato un aumento di violenza economica”.

Di che cosa si tratta?

“Io sostengo che la violenza si basa su tre S: sesso, soldi e status. Avere soldi dà potere e certi uomini hanno tutto l’interesse nel mantenere la donna soggiogata anche economicamente. Molte donne non hanno a disposizione soldi e ricevono dai mariti e compagni la “paghetta” anche per mandare avanti la casa e devono presentare gli scontrini di ciò che hanno effettivamente acquistato. Molte non sanno quanto guadagnano i mariti, a volte non sanno nemmeno con precisione che lavoro fanno e di cosa si occupano. Non sono a conoscenza di situazioni debitorie, non hanno accesso al conto, non posseggono una carta di credito. Ecco perché il nostro centro ha deciso di avviare una formazione specifica per gli operatori, per aiutare le donne in questa situazione e fornire loro strumenti adeguati per accedere per esempio al microcredito o anche solo banalmente per attivare una carta di credito per ricevere l’assegno unico per i figli, che può essere una fonte di sostegno insieme ad altri aiuti come il “Reddito di libertà”. 

Qual è la parte più difficile per una donna che arriva al centro antiviolenza?

“La consapevolezza che quella vita non la si vuole più condurre. Noi chiediamo sempre alle utenti come si vedono da lì a due anni: ce la fai ancora o vuoi voltare pagina? Forniamo innanzitutto un sostegno e un supporto, un accompagnamento alla decisione vera e propria di spezzare una catena. Spesso significa rompere un progetto di vita o anche solo dare uno scossone che serve a cambiare le regole su cui era basata prima la relazione. Prendere coscienza e andare oltre”.

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 22 novembre 2024

Laura Avidano